domenica 29 dicembre 2013

Essere niente


continua dal precedente post sull'orgoglio.

Questo articolo è tratto dal libro "Le malattie dell'anima" di  Alphonse e Rachel Goettmann.

Molti santi e padri della chiesa ebbero spesso a dire che la loro gioia più grande era "essere niente". Sembra evidente che ciò si riferisce al completo annullamento della loro personalità, della identificazione con i corpi. Sentivano di essere anima, di far parte dell'Uno, di essere uno strumento nelle mani di Dio.

Nel vangelo di Marco, al capitolo 8 versetti 34 e 35 Gesù ci dice: "Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua di continuo. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e della buona notizia, la salverà".
Rinunciare a se stessi, rinnegarsi, essere niente, ecco dei termini che disgustano e umiliano l'uomo del nostro tempo; ma respingere questo appello di Cristo significa rinnegarlo. Potrebbe forse Cristo voler umiliare colui per il quale ha donato la sua vita? L'umile è lieto di essere "niente". E questa gioia, questo niente, è la gioia di sapersi, per pura bontà di Dio, amico degli uomini e "co-eredi di Cristo".

Essere niente non costituisce né un fine né un ideale in sé, ma è rinunciare alla volontà della personalità e rinnegare le esigenze dell'ego per seguire Gesù; è mettere l'ego in croce....Seguire Cristo è uscire dalla prigione delle passioni e dalle loro conseguenze mortali. Cristo ci invita molto semplicemente a vivere come lui; non sappiamo più cosa significa vivere ma egli ce lo insegna: "Imparate da me!" (Matteo 11:29).
Invece di essere invischiati in questo mondo, schiavi delle passioni, Gesù ci introduce alla vita divina: ci dice che si può essere nel mondo senza essere del mondo (Giovanni 17:14-16), che esiste una maniera di vivere totalmente libera e non condizionata, che anche nelle situazioni peggiori l'uomo può vivere una suprema felicità e persino l'impossibile diventa possibile.

Non possiamo accedere alla beatitudine con le nostre sole forze; l'esperienza che abbiamo della felicità ci permette di comprenderla ma l'umiltà è comune a Dio e all'uomo.
  "L'umiltà ci è co-naturale e l'abbiamo in comune con tutti coloro che vivono sulla terra, fatti di terra alla quale ritornano. Se dunque imiti Dio in ciò che è conforme alla tua natura e non supera le tue risorse, tu rivesti come di un abito la felice forma di Dio"
     San Gregorio di Nissa




Noi intuiamo che felicità e umiltà costituiscono un unico e medesimo tragitto, una stessa dinamica, un medesimo movimento il cui "Cammino" è il Signore Gesù Cristo. 


                                                         Enrico D'Errico

continua nel prossimo post sulla lussuria