domenica 29 dicembre 2013

L'accidia


Continua dal post del 13 novembre sulla tristezza e fa parte della serie dedicata ai sette vizi capitali o otto passioni maggiori.

Anche questo articolo, come i precedenti, è tratto dai testi dei coniugi Goettmann e J. Leloup.

Nonostante non condivida alcuni punti di vista degli autori, trovo la loro descrizione delle passioni maggiori molto acuta e utile a far riflettere tutti coloro che hanno intrapreso un percorso di ricerca interiore.
Ecco perché ho deciso di inserire questa serie di trascrizioni nel mio blog.
Alla fine dell'articolo ho riportato tutti i link per accedere ai post precedenti: questo periodo di fine anno e inizio anno nuovo porta con sé speciali energie che, unite al vostro desiderio di rinnovamento, favoriranno positivamente il progresso.



' L'individuo che ha intrapreso un itinerario spirituale rispondendo alla chiamata di Dio, deve passare attraverso tappe successive di purificazione. Dopo una partenza sovente entusiasta, vissuta spesso nell'euforia, per una decisione finalmente presa con coraggio, giunge presto la prova di un combattimento spirituale; proprio come per gli ebrei, che dopo la fuga dall'Egitto e la gioia per la liberazione, dovettero subito affrontare la tappa del deserto. Aridità, crisi improvvisa, perdita di fiducia. Si comincia a mormorare e a rimpiangere i piaceri del passato. Il gusto della vita spirituale sembra essere smarrito e Dio, per cui si era intrapreso il viaggio, pare essere lontano.

L'akedia non è una voglia o una pulsione come quelle fin qui descritte, ma uno stato d'animo che coglie e attraversa le pieghe dell'anima, paralizzando la coscienza e, osserva Massimo il Confessore, dando libero corso all'assalto di tutte le altre passioni. Giovanni Cassiano precisa che questo stato ha due caratteristiche: il disgusto e la paura che si infilano in tutti i nostri atti. Nasce di là un cattivo umore interiore che ci rende l'attimo presente insopportabile.

Più triste della tristezza (lupé), l'accidia conduce alla disperazione e talvolta persino al suicidio. Nel linguaggio contemporaneo, parleremmo di depressione o melanconia nell'accezione clinica del termine. Gli antichi Padri la chiamavano anche "il demone di mezzogiorno" e descrivevano con precisione quello stato in cui l'asceta, dopo aver conosciuto le consolazioni spirituali dell'inizio e il combattimento ardente della maturità, rimette in discussione tutto il suo cammino; non solo Dio quindi ma anche la scelta monastica, il proprio matrimonio, il cammino spirituale, le scelte fatte. Per mettere a tacere il tormento dell'anima l'individuo si rifugia nell'iper-attivismo, nel sesso, nell'alcol, nei viaggi, negli psicofarmaci...Ma non c'è nulla che può sciogliere la sua ansia interiore.

Anche Jung, nel suo processo di individuazione, ha descritto bene quel momento di "crisi" in cui l'uomo rimette in questione la sua vita. E' un periodo in cui si può manifestare con violenza il "ritorno di ciò che è stato represso", ma può anche essere il momento chiave di un "passaggio" verso una realizzazione più alta; ai valori del "avere" si sostituiscono i valori del "essere" i quali orientano ormai la vita dell'uomo non più verso l'affermazione dell'ego ma, al contrario, verso la sua relativizzazione e la sua integrazione nell'archetipo della totalità che Jung chiama il Sé. 
Questo periodo è caratterizzato particolarmente da depressione. Tutti gli antichi sostegni o le antiche sicurezze vengono a mancare e niente sembra sostituire il bell'edificio crollato; se si cerca un aiuto o un conforto, ciò non fa che accrescere la disperazione e il sentimento di totale incomprensione al quale pare di essere condannati.

L'accidia pietrifica l'uomo sul non senso e sull'assurdità della vita. E' senza dubbio la più grande paura dell'uomo del XX° secolo, ben oltre la paura del nucleare, c'è il terrore di fronte all'apparente non-senso della vita.
La cura peggiore per questo male è la consolazione! Chi cerca di consolare colui che si trova in questo stato di apatia e passività farà - involontariamente, certo - solo dei danni. La consolazione è l'ultimo dei rimedi: non solo non fa che aumentare il male, ma impedisce il processo di conversione. Colui che si trova sprofondato nell'abisso dell'accidia non può fare altro che accettare di vivere pienamente e coscientemente questo stato con tutto ciò che esso comporta: disgusto, noia, stanchezza, paura, depressione...  Stare là, immobili nella propria abulia, senza fuggirne o, peggio, senza narcotizzarla con espedienti inutili, ma accettarla...  nella preghiera e nell'abbandono con un "sì" che sa fidarsi di un Dio che, in quel preciso istante, pare essere distante e indifferente. Talvolta bisogna lasciarsi schiacciare fino in fondo dalla propria condizione, per trovare poi la forza di rialzarsi. Il Dio, che abbassa e innalza, vuole che tocchiamo il fondo non per annientarci, ma per renderci umili e restituirci la dignità di figli.

L'esperienza del deserto nella nostra vita è il più grande dei misteri. L'uomo viene spogliato del proprio ego e depone una per una tutte le sue sicurezze e si lascia condurre solo da Dio, il quale ci chiede di fare un solo passo alla volta, qui e oggi, nell'attimo presente, senza preoccuparsi del passato e del futuro.
Durante i mesi della malattia, Teresa di Lisieux, in preda agli spasmi e ai conati sanguigni della tubercolosi, malattia che l'avrebbe condotta a morte a soli ventiquattro anni, diceva: "Soffro solo di attimo in attimo... Ci si scoraggia e ci si dispera quando si pensa al passato e all'avvenire. Io soffro, ma non sono affatto infelice. Il Signore mi da esattamente ciò che posso sopportare, istante dopo istante". '

Link ai post precedenti:












Lupé: la tristezza


Continua dal post del 2 ottobre sulla collera.
Anche questo articolo, come i precedenti, è tratto dai testi dei coniugi Goettmann e J. Leloup



Tutte le passioni conducono alla tristezza: è il segno più eclatante del distacco dell'essere da Dio. Non si tratta di quello che chiamiamo generalmente "cattivo umore" a livello psicologico, ma di una sorta di prostrazione che domina le profondità dell'inconscio, riempiendolo di amarezza. Si tratta di un sentimento di delusione e disincanto, di una totale mancanza di speranza per l'insoddisfazione di desideri, pulsioni, ambizioni...E' un accanimento di concentrazione sul finito, che non riesce a colmare lo struggente desiderio di infinito. Una gioia infatti non potrà mai essere durevole se dipende da cose esteriori, effimere e mutevoli per definizione.

Frustrato fino allo stremo delle forze quest'uomo cade nella depressione e si chiude in un circolo vizioso. La sua tristezza è pesante, lo schiaccia fino a terra, gli impedisce la concentrazione, la preghiera e la lettura spirituale. La disperazione produce rancore e aggressività, e invade tutto il corpo.

La diagnosi di questa malattia spirituale è tanto più facile se ci poniamo di fronte a quello che è l'atteggiamento fondamentale del cristianesimo: la gioia. Vangelo significa Buona Notizia: Cristo è risorto. Secondo i Padri della Chiesa non esiste un peccato più grave dell'essere insensibili all'evento della Resurrezione. Non esiste tradimento più condannabile per un discepolo di Cristo dell'essere senza gioia. Perché essere in Cristo significa essere nella gioia: "Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena" (Giovanni 15:11).
La gioia è un segno indiscutibile del progresso spirituale. "State lieti, tendete alla perfezione" (2° Corinzi 13:11). Senza gioia non c'è santità. Santa Teresa di Lisieux era solita ripetere: "Un santo triste è un triste santo!".

E infatti la gioia è il sacramento dell'amore, ne è il fiore più bello, il raggio più luminoso. Dove non c'è gioia non c'è amore. La gioia è la nostra unica vocazione, poiché è il segno di riconoscimento della verità. Siamo chiamati alla gioia: "Rallegratevi nel Signore sempre, ve lo ripeto, rallegratevi!" (Filippesi 4:4). La gioia non si può definire o descrivere, nella gioia si entra e basta! Entra nella gioia del tuo maestro! (Matteo 25:21)

La tristezza è lo spossamento che deriva da tutte le passioni smodate. La gioia è dunque il segno di una purificazione dalle passioni. La gioia è i segno del definitivo distacco da se stessi. La gioia abita coloro che dicono "per me vivere è Cristo" (Filippesi 1:21) e che nella preghiera contemplano senza stancarsi il Volto dell'amato. E' una gioia che nessuno può turbare o togliere, poiché dipende solo da colui che abita le nostre profondità.

continua nel prossimo post sui vizi capitali o otto passioni maggiori

La collera


continua dal post del 16 settembre sull'avarizia.

Meditando sui sette peccati capitali è facile rilevare come essi prendano in considerazione atteggiamenti ed emozioni che sono molto diffusi tra gli esseri umani, comportamenti così comuni da essere considerati normali, banali. Nessuno più considera peccato o vizio una cosa comune come l'ira e quindi nessuno fa degli sforzi di osservazione per correggersi. 
Come già ho spiegato in precedenza, se non siamo sotto la tutela di Dio, qualcun altro ci prende in custodia e guida le nostre azioni costantemente. Se siamo nel mondo e del mondo, la gola, l'attaccamento alle cose materiali, la vanità o l'ira sono atteggiamenti giustificabili sui quali non vale molto la pena di soffermarsi. 

Spero che nessuno abbia frainteso il mio interesse per il pensiero dei Padri della Chiesa riguardo ai peccati capitali: non sono un bigotto moralista o un religioso integralista. Tuttavia sono sicuro che ognuno di noi, vivendo nel mondo, si sia totalmente impregnato dello spirito di queste passioni che vengono dai Padri definite come malattie dell'anima; credo quindi che dobbiamo stare attenti a non sottovalutare l'argomento come fanno tutti.          




"Orgé", (ργή) è il termine greco che viene generalmente tradotto con collera o impazienza; nel linguaggio biblico si parla di "Qesor 'appaim" che significa letteralmente "brevità di respiro". In effetti la collera ci fa perdere il fiato, il respiro si fa affannoso, l'uomo soffoca, è come "posseduto". Da un temperamento sano ed equilibrato emana un gradevole calore, ma, punto sul vivo, questo calore diventa incandescente. E' la collera che "fa bollire il sangue" come dice Evagrio. Lui attribuì molta importanza al fenomeno della collera; secondo Evagrio la collera sfigura la natura umana e rende l'uomo simile a un demonio.
E' un'energia prodigiosa che, da una situazione di stasi, viene messa in movimento da qualche causa scatenante. Ecco perché diciamo che esistono delle collere "giuste" e "sante" - l'indignazione davanti a un'ingiustizia, ad esempio - mentre esistono collere che sono devastanti e perverse. L'energia negativa che si produce nella collera rabbiosa è una delle passioni più pericolose che esistano. L'uomo è letteralmente "fuori di sé" e perde tutti i caratteri della propria rassomiglianza con Dio. L'individuo sfigurato dalla collera perde ogni capacità di discernimento o di saggezza.

L'origine di tale disastro si trova nell'insoddisfazione profonda dell'essere che non può più essere contenuta. L'aggressività continua del collerico, la sua irritabilità e il suo risentimento verso tutti, non sono altro che sintomi di un qualcosa di non risolto...potremmo dire di non digerito. E infatti negli individui collerici gli organi della digestione sono i più soggetti a disturbi e malattie. La collera rovina il fegato ed eccita la bile e diventa poi particolarmente pericolosa se è una collera soffocata, non manifestata: può portare facilmente all'ulcera.

I Padri dicevano che non si può vincere la collera se non si decide di attaccare le radici del male; le armi con cui ingaggiare la lotta sono la dolcezza e il perdono. La dolcezza consiste nell'essere sereni anche nelle prove peggiori. Si tratta di mantenere calma e fiducia anche quando l'evidenza dei fatti ci induce al pessimismo. Questa serenità di fondo mette in fuga la confusione e ci permette di vedere la situazione nei suoi lati positivi e negativi.

Perdonare l'altro significa volere il suo bene, desiderare la sua crescita in pienezza. Ma il collerico deve perdonare anzitutto se stesso. Infatti, chi è in preda del demone della collera sovente non si è riconciliato con i propri errori e non ha  ancora accettato di essere una creatura fragile e limitata come tutti. Perdonare se stessi è accogliere il perdono di Dio. Il bene più grande che si possa fare a una persona è far scendere su di lei la benedizione di Dio: "Benedite, non maledite!" dice Gesù. Perdonare è rendere il bene per il male ricevuto. Bisogna benedire e non giudicare.

Accogliere il perdono di Dio significa accettare di perdonare il fratello. La potenza della benedizione di Dio scende allora fin nelle profondità del nostro spirito, là dove giacciono i nostri traumi irrisolti. Il conflitto potrà anche essere antico e le radici del nostro odio ormai indurite dal tempo, ma la potenza di questa benedizione divina sradica ogni rancore.

"Che il sole non tramonti sulla vostra ira" (Efesini 4:26); è probabile che gli antichi monaci, prima di coricarsi la sera, prima di perdonare i loro nemici, si dessero a qualche esercizio respiratorio, insistendo sull'espirazione per scacciare ogni pensiero di collera.
La grande qualità del monaco, secondo Evagrio, è la dolcezza, ossia l'opposto dell'ira. E' ciò che distingueva Mosè o Gesù dagli altri uomini. Una dolcezza che non era languore o debolezza, bensì manifestazione della perfetta padronanza dello spirito santo sulla parte irascibile dell'essere, sempre pronta a irritarsi. Vi è una dolcezza transpersonale che è più di una semplice gentilezza di carattere: è il riflesso dell'armonia, di tutte le facoltà fisiche e psichiche dell'uomo.

continua nel prossimo post sui vizi capitali: "Lupé"

Sull'avarizia o Filarguria


continua dal post "Lussuria"



Prosegue il nostro esame delle 8 passioni maggiori o 7 vizi capitali. Abbiamo iniziato con una lunga serie dedicata alla gola, poi siamo passati alla superbia (orgoglio e vanità), abbiamo parlato della lussuria e ora esaminiamo l'avarizia o avidità.


Non si tratta in realtà soltanto dell'avarizia ma di ogni forma di attaccamento a un "avere", qualunque esso sia. San Giovanni Cassiano racconta la storia di un monaco che entrando in monastero aveva lasciato grandi beni e che, una volta entrato, divenne incapace di separarsi da una semplice "gomma"; era più forte di lui, non poteva imprestarla a nessuno.

L'esempio chiarifica quegli attaccamenti morbosi e irrazionali che si possono avere non soltanto nei confronti di un bene materiale, ma anche di un'idea, di un'abitudine. Vi è identificazione con ciò che si pensa, si fa e si possiede; perdere qualcosa è come perdere una parte di se stessi.

Una delle radici inconsce di questo comportamento si situerebbe allo stadio anale. Quando il bambino, identificandosi con il proprio corpo, prova qualche terrore vedendolo "decomporsi" sotto forma di materie fecali, se la madre non gli è accanto per rassicurarlo e ringraziarlo di "quel gentile regalo", potrà provarne un certo timore che lo porterà a chiudere gli sfinteri o, al contrario, a voltolarsi nei suoi escrementi. L'educazione alla pulizia non è cosa facile e ogni uomo conserva nel suo inconscio delle tracce più o meno dolorose di quell'epoca della sua vita; esse si manifesteranno sotto forma di ossessione verso il corpo, di tensione, di stitichezza,
e, a livello psicologico, di contrazioni patologiche su possessi accumulati. 

Gli antichi sembrano aver penetrato la radice inconscia di tutto questo quando chiedono ai loro monaci di"meditare sulla morte" e di prendere coscienza che "tutto ciò che è composto andrà un giorno in decomposizione" per diventare così liberi da ogni possesso terreno.

Essere avaro, accumulare ricchezze, tenere per sé, significa conservare il vapore sul vetro della nostra esistenza: tutto questo non tarderà a svanire; ciò che conta è cogliere il carattere mortale di tutte le forme, ma anche il valore eterno di ciò che rimane, dell'Increato che ci abita. Per gli antichi si tratta di scoprire ciò che per l'uomo ha veramente valore. "Lasciare l'incerto per il certo", "vendere tutto ciò che si possiede per acquistare la perla preziosa" 
(Matteo 13:46)
A questo proposito, nel vangelo non mancano le parabole: "Là dov'è il tuo tesoro sarà anche il tuo cuore". (Matteo 6:21)

Questo tesoro è transpersonale. E' la vita divina in ognuno di noi. E' l'amore, questo tesoro che paradossalmente "si moltiplica nella misura in cui lo spendiamo". 

Così per i Padri della chiesa l'avarizia è una grave malattia, nel senso che impedisce in noi la sanità del cuore, ossia la generosità, la comunione e l'apertura alla vita. L'avarizia mantiene in noi la paura di amare. La "filarguria" ci priva del piacere di partecipare alla generosità e alla gratuità (grazia) divina, perché "c'è più gioia nel dare che nel ricevere". (Atti 20:35)

Tratto da libro "L'Esicasmo" di Jean-Ive Leloup
Continua nel prossimo post sull'Ira

La lussuria


continua dal post del 30 agosto "Essere niente".
Questo articolo è tratto dal libro "Preghiera di Gesù preghiera del cuore" dei coniugi Goettmann.


Il retroterra da cui sorge la passione della gola è lo stesso da cui hanno origine anche le altre passioni: la crescita smisurata dell'io. Potremmo rappresentarci quest'uomo in preda alle passioni come uno gnomo enorme, il cui "io", ingigantito a dismisura, ha deformato il corpo. Dal ventre di questo mostro escono otto braccia che si dimenano nell'atto di afferrare e arraffare...



La lussuria, secondo i Padri della chiesa, è la risultante diretta di un nutrimento sovrabbondante e smodato.
Ma, come il nutrimento, la sessualità è una dimensione strutturale della persona, l'individuo vive e si esprime attraverso di essa. Alla base c'è sempre la nostalgia dell'unità perduta, e la ricerca, mai definitivamente conclusa, della nostra parte femminile. Il desiderio di amare e di essere amati di ogni essere umano diventa fuoco di passione carnale nel momento stesso in cui egli smette di voler il bene della persona che ha di fronte facendola diventare oggetto. Tutte le relazioni, allora, anziché essere luogo dell'incontro con Dio, si trasformano in desiderio di possesso. Tutta l'energia dell'individuo è polarizzata a livello delle pulsioni genitali, che ancora una volta soffocano la coscienza e trovano sfogo nello sfruttamento dell'altro attraverso il pensiero, l'immaginazione, lo sguardo concupiscente, il gesto violento, il desiderio bruciante o il piacere solitario...
Il corpo, tempio dell'alleanza con Dio e con l'altro, diventa oggetto di consumo, in cui ogni ombra delicata di mistero svanisce. 

Il solo rimedio qui è di lasciarsi amare, prendere coscienza dell'amore folle di Dio per noi, come suggerisce Nicolas Cabasilas, e questo è sufficiente per ritrovare serenità. E' il senso stesso della preghiera di Gesù. E infatti in questi casi la preghiera compie veri e propri miracoli. L'immaginazione erotica ha la sua sede nella mente e l'invocazione del nome si sostituisce al pensiero ossessivo e orienta il cuore verso l'amore autentico. L'anima liberata si volge verso lo spirito e il corpo a sua volta si volge verso l'anima; la liberazione è immediata e, secondo Giovanni Crisostomo, cambia la sostanza stessa delle cose. Tutto l'essere entra in una nuova tensione, la gerarchia pervertita corpo-anima-spirito si rovescia e si riequilibra ritrovando il suo centro unificante nello spirito. E' cos' che avviene la conversione.
Questo progressivo ritorno all'amore autentico conduce a quella che chiamiamo castità, dal greco sophrosyné: pienezza di saggezza! Castità non vuol dire affatto mancanza d'amore, astinenza, al contrario si tratta di crescita nell'amore. "L'atto sessuale, vissuto nell'amore e nella verità, scrive Bazile Rozanov, è atto che non vanifica la castità, ma al contrario l'accresce". L'amore autentico, infatti, sa riconoscere fino a che punto è libero dall'ossessione sessuale.

L'amore vero è una manifestazione del cuore-spirito, e non ha una struttura sessuata, è in noi ciò che ci trascende, al di là dello spazio e del tempo. (Vedi Matteo 22:30 e Marco 12:25). Grazie alla verginità-castità, il cuore conduce l'anima e il corpo alla stessa trasparenza e ci apre a un cambiamento radicale di prospettiva in tutte le relazioni, e soprattutto nei rapporti sessuali.

La prospettiva del monachesimo, del celibato o del matrimonio, è la stessa, ma si realizza attraverso cammini differenti. Per i monaci si tratta di una prospettiva escatologica, di vivere cioè il ministero delle cose ultime con il rifiuto totale di ogni compromesso mondano; il monaco si ritira in solitudine e si mette di fronte ai demoni per combatterli. La sua vita è un martirio di solitudine, ma anche una celebrazione anticipata delle nozze dell'Agnello.

Per la coppia di sposi si tratta invece di vivere la prospettiva evangelica nel mondo e di celebrare il mistero delle cose prime, facendo del quotidiano la materia del proprio sacrificio. Le nozze sono allo stesso tempo un'immagine profetica del Regno che deve venire.  Gli sposo costruiscono " La casa di Dio", come sostiene Clemente di Alessandria e costituiscono il mistero della chiesa nel laboratorio domestico in cui, alla stregua della cella del monaco o delle caverne degli eremiti, viene celebrato il miracolo di Cana: l'acqua cambiata in vino è la vita degli sposi che di giorno in giorno si trasforma. La castità fa uscire il matrimonio dalla sua fatalità biologica e lo rende un cammino spirituale con tutti i crismi della lotta e dell'ascesi, un cammino che non ha nulla di meno della scelta monastica!

Non c'è amore senza croce: il cuore di uno è l'altare su cui l'altro accetta di morire e di risorgere nel quotidiano. Il frutto di questa unione sponsale, di questa coesistenza, riveste l'atto sessuale di un carattere intensamente mistico. Non è tanto la nascita di un bambino che lo suggella, quanto la rinascita degli sposi su un piano sempre più alto di vita; è una rigenerazione continua e reciproca. L'innamorato è un contemplativo, il sacramento infatti gli da la capacità di vedere la gloria di Dio nell'essere amato e la preghiera di Gesù gli permette di darle un nome... Per colui che ama, la vita coniugale si manifesta come un roveto ardente in cui Dio si lascia vedere, toccare, sentire...

La lussuria è solitaria o a due; è un inferno con cui non si vede che se stessi attraverso il labirinto di infiniti specchi. Nella lussuria vedo solo me stesso e non l'altra persona, vedo me stesso fino alla nausea... Il sortilegio demoniaco di questa passione mortale non può che essere vinto con la preghiera incessante e la vigilanza interiore. Preghiera e vigilanza ridestano il movimento oblativo e uccidono l'egocentrismo. Preghiera e vigilanza ci insegnano a dire "Tu" con infinita tenerezza.

continua nel prossimo post sull'avarizia

Essere niente


continua dal precedente post sull'orgoglio.

Questo articolo è tratto dal libro "Le malattie dell'anima" di  Alphonse e Rachel Goettmann.

Molti santi e padri della chiesa ebbero spesso a dire che la loro gioia più grande era "essere niente". Sembra evidente che ciò si riferisce al completo annullamento della loro personalità, della identificazione con i corpi. Sentivano di essere anima, di far parte dell'Uno, di essere uno strumento nelle mani di Dio.

Nel vangelo di Marco, al capitolo 8 versetti 34 e 35 Gesù ci dice: "Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua di continuo. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e della buona notizia, la salverà".
Rinunciare a se stessi, rinnegarsi, essere niente, ecco dei termini che disgustano e umiliano l'uomo del nostro tempo; ma respingere questo appello di Cristo significa rinnegarlo. Potrebbe forse Cristo voler umiliare colui per il quale ha donato la sua vita? L'umile è lieto di essere "niente". E questa gioia, questo niente, è la gioia di sapersi, per pura bontà di Dio, amico degli uomini e "co-eredi di Cristo".

Essere niente non costituisce né un fine né un ideale in sé, ma è rinunciare alla volontà della personalità e rinnegare le esigenze dell'ego per seguire Gesù; è mettere l'ego in croce....Seguire Cristo è uscire dalla prigione delle passioni e dalle loro conseguenze mortali. Cristo ci invita molto semplicemente a vivere come lui; non sappiamo più cosa significa vivere ma egli ce lo insegna: "Imparate da me!" (Matteo 11:29).
Invece di essere invischiati in questo mondo, schiavi delle passioni, Gesù ci introduce alla vita divina: ci dice che si può essere nel mondo senza essere del mondo (Giovanni 17:14-16), che esiste una maniera di vivere totalmente libera e non condizionata, che anche nelle situazioni peggiori l'uomo può vivere una suprema felicità e persino l'impossibile diventa possibile.

Non possiamo accedere alla beatitudine con le nostre sole forze; l'esperienza che abbiamo della felicità ci permette di comprenderla ma l'umiltà è comune a Dio e all'uomo.
  "L'umiltà ci è co-naturale e l'abbiamo in comune con tutti coloro che vivono sulla terra, fatti di terra alla quale ritornano. Se dunque imiti Dio in ciò che è conforme alla tua natura e non supera le tue risorse, tu rivesti come di un abito la felice forma di Dio"
     San Gregorio di Nissa




Noi intuiamo che felicità e umiltà costituiscono un unico e medesimo tragitto, una stessa dinamica, un medesimo movimento il cui "Cammino" è il Signore Gesù Cristo. 


                                                         Enrico D'Errico

continua nel prossimo post sulla lussuria

L'orgoglio


(continua dal precedente post sulla tracotanza, la vanità). 


Questo peccato capitale o passione maggiore era chiamata "ubris" dai greci (upsilon-beta-rho-jota-sigma); i loro dei punivano il genere umano quando peccava di superbia, quando si rivolgeva al cielo senza umiltà. Ritenersi simili agli dei era considerato arroganza; ora noi in realtà, dobbiamo scoprire proprio di essere simili a Dio, anzi, di essere Dio stesso, ma, come dicono le Scritture, ciò va fatto secondo delle tappe prestabilite. 

In Salmo 82:6 leggiamo "Io stesso ho detto: Voi siete dèi, siete tutti figli dell'Altissimo". "Voi siete dèi" dice il Padre, e il serpente promette alla donna, se gli darà ascolto: "...e voi sarete davvero simili a Dio" (Genesi 3:5). Dunque Adamo, l'Uomo era destinato a divenire dio, ma in Dio e attraverso Dio, non un altro dio senza Dio.




San Ireneo di Lione scrisse: 
"Bisognava che l'uomo fosse prima creato; che una volta creato crescesse; che essendo cresciuto divenisse adulto; che essendo divenuto adulto si moltiplicasse; che essendosi moltiplicato divenisse forte; che essendo divenuto forte fosse glorificato; e che, glorificato, vedesse il suo Signore". E ancora aggiunge "Come potrai essere Dio se ancora non sei stato fatto uomo? Come potrai essere compiuto se sei stato appena creato?"
Nella Bibbia è detto che Satana fece credere ai nostri progenitori di non aver alcun bisogno di queste tappe di maturazione e che avrebbero potuto conquistare da se stessi la deificazione, quindi per se stessi godere e trarre frutto dalla somiglianza: sarebbe stato sufficiente mangiare del frutto dell'albero, quello al quale Dio non aveva ancora permesso l'accesso perché il tempo non era ancora venuto. 

E' per orgoglio che mi distolgo da Dio quando penso e agisco unicamente secondo il mio piacere. L'orgoglioso vuole esistere senza Dio, vuole impossessarsi dei doni e degli attributi divini e servirsene indipendentemente da Dio. Ma senza Dio, separato dal suo creatore, l'uomo non ha la capacità di divenire uomo; satana lo sapeva. Fuori da Dio è la morte: Dio chiama alla vita, distogliersi da lui significa incamminarsi verso la morte.   

Così come avviene per la vanità, l'orgoglio prende due direzioni: l'orgoglioso cerca di elevarsi e si mette sia al di sopra del fratello, sia al di sopra di Dio. Orgoglio e vanità sono quelle passioni che si fecondano continuamente: la vanità apre la porta all'orgoglio, e l'orgoglio cerca la vanità. Queste due passioni hanno molti punti in comune; la differenza è che non si cerca più lo sguardo dell'altro, ma ci si stima, ci si sovrastima, si è soddisfatti di se stessi fino all'adorazione di sé, l'autolatria. Ci si crede molto intelligenti, molto dotati, molto belli, molto ricchi, con una posizione sociale molto buona, e questo "molto" diventerà "il più" al posto di Dio; ma la scrittura di 1° Corinti 4:7 dice: "Chi dunque ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come non l'avessi ricevuto?" 

L'orgoglioso è come ipnotizzato da se stesso, vive in un mondo chiuso e vede suo fratello solo per disprezzarlo. Oppure l'altro esiste solo come sgabello per elevarsi ancora di più; l'altro è una cosa e, se oppone resistenza, allora diventa oggetto di collera, di aggressività, di odio e ogni vera relazione diventa impossibile. L'orgoglioso non perdona l'offesa, al contrario, calpesta l'altro e si arroga il diritto di giudicarlo, mentre Dio solo può conoscere i nostri pensieri e sondare il nostro cuore.
Posseduto dalla passione, l'orgoglioso è arrogante, ostenta il suo sapere, è infatuato e sicuro di sé. L'orgoglio lo priva della capacità di ascoltare, ha sempre ragione, non può sbagliarsi, rifiuta di mettersi in discussione, si giustifica per non cadere dal suo piedistallo.

Quando cediamo all'orgoglio siamo pieni di follia, chiudiamo gli occhi all'evidenza e gli orecchi alla verità, deliriamo. L'orgoglio di uno solo può voler distruggere una razza, una nazione, può mettere i popoli gli uni contro gli altri, portare al genocidio e alle rivoluzioni; ma può diventare anche orgoglio collettivo: la storia della torre di Babele, nel libro di Genesi è proprio un simbolo di orgoglio collettivo: "Suvvia, edifichiamoci una città e anche una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome celebre..." (Genesi 11:4)        

L'unico antidoto all'orgoglio è l'umiltà,fonte di ogni bene e fondamento della vita. Ecco perché lo scopo dell'ascesi è quello di frantumare l'orgoglio e di fare dell'umiltà la nuova terra dell'uomo.
Ma dell'umiltà continueremo a parlare in un prossimo articolo dal titolo "Essere niente".

Enrico D'Errico